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Cannabis terapeutica e Codice della Strada: una normativa che penalizza i pazienti

Il paradosso delle nuove regole

Con l’entrata in vigore del nuovo Codice della Strada il 14 dicembre 2024, migliaia di pazienti che utilizzano la cannabis terapeutica si trovano improvvisamente in una situazione paradossale. Le disposizioni dell’articolo 187 prevedono sanzioni severe per chi guida con tracce di THC nel sangue, senza distinguere tra uso terapeutico e consumo ricreativo. Questo approccio, pur mirato a garantire la sicurezza stradale, ignora le specifiche esigenze di chi utilizza la cannabis come farmaco per patologie gravi come sclerosi multipla, dolori cronici o disturbi dell’umore. Per questi pazienti, il farmaco non rappresenta solo una soluzione terapeutica, ma un mezzo essenziale per affrontare la quotidianità.

Secondo la normativa, la presenza di THC nel sangue può portare alla sospensione della patente per un massimo di due anni, una multa di 6.000 euro e fino a un anno di arresto. Questa misura, apparentemente pensata per dissuadere l’uso di sostanze alteranti alla guida, finisce per penalizzare chi, pur non mostrando alcun segno di alterazione, si affida alla cannabis terapeutica per migliorare la propria qualità di vita. La legge sembra dimenticare che il THC può rimanere nel sangue anche per giorni o settimane, creando un evidente squilibrio tra normativa e realtà medica.

Le proteste delle associazioni

Le principali associazioni di pazienti, supportate da esperti legali come gli avvocati Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti, hanno reagito con forza alle nuove disposizioni. Una diffida formale è stata inviata al governo e al Parlamento, chiedendo la convocazione urgente di un tavolo tecnico entro il 20 gennaio 2025 per discutere deroghe che garantiscano il diritto alla guida ai pazienti in trattamento con THC e CBD. Secondo le associazioni, la mancata azione da parte delle istituzioni non è solo un errore legislativo, ma un atto di negligenza verso una categoria già fortemente provata dalle proprie condizioni di salute.

Le associazioni sottolineano come le tracce di THC possano persistere nel corpo per giorni dopo l’assunzione, ben oltre la durata degli effetti psicoattivi. Questo crea un paradosso legale: pazienti che seguono una terapia regolarmente prescritta rischiano di essere criminalizzati senza motivo, con conseguenze che possono includere la perdita del lavoro o l’impossibilità di accedere alle cure necessarie. È una situazione che, secondo i portavoce, compromette non solo i diritti fondamentali dei pazienti, ma anche la fiducia nei confronti di un sistema sanitario che dovrebbe tutelarli.

Un dialogo interrotto

Nonostante le promesse del vicepremier Matteo Salvini di affrontare la questione, il tavolo tecnico istituito nel 2021 per discutere la regolamentazione della cannabis terapeutica non è mai stato convocato dall’attuale governo. Questa mancanza di iniziativa è vista dalle associazioni come un segnale di indifferenza verso le necessità di una fetta vulnerabile della popolazione. Molti pazienti hanno espresso frustrazione e rabbia per quella che considerano una chiara mancanza di empatia e attenzione da parte delle autorità.

La situazione si aggrava ulteriormente per via dell’assenza di chiarezza normativa. Molti pazienti si trovano costretti a scegliere tra il rispetto delle leggi e la gestione efficace delle proprie condizioni di salute, un dilemma che evidenzia la necessità di un intervento legislativo immediato. Le storie personali di chi affronta ogni giorno questa situazione rappresentano una testimonianza potente dell’urgenza di una soluzione. Alcuni pazienti hanno già dichiarato di sentirsi costretti a rinunciare alla terapia, temendo le ripercussioni legali.

Possibili scenari futuri

Se il governo non risponderà entro la scadenza fissata, migliaia di pazienti sono pronti a intraprendere azioni legali contro lo Stato. Una class action potrebbe rappresentare il primo passo per ottenere risarcimenti per i danni fisici e morali subiti, oltre a sollecitare un cambiamento delle normative. Le associazioni, inoltre, stanno valutando di portare la questione davanti alle istituzioni europee, sperando in una maggiore sensibilità verso i diritti dei pazienti.

Le associazioni chiedono un dialogo aperto con il governo, coinvolgendo esperti legali, medici e rappresentanti dei pazienti per trovare una soluzione equilibrata. La proposta è chiara: una legislazione che riconosca la differenza tra uso terapeutico e ricreativo della cannabis, tutelando al contempo la sicurezza stradale e i diritti dei cittadini. In gioco non c’è solo la mobilità dei pazienti, ma anche la loro dignità e autonomia.

Un equilibrio necessario

La situazione attuale mette in luce una sfida cruciale per le istituzioni: come aggiornare le normative per riflettere le esigenze di una società in evoluzione, senza compromettere la sicurezza pubblica. Riconoscere il valore medico della cannabis terapeutica è un passo fondamentale per garantire che i diritti dei pazienti non vengano calpestati da leggi pensate per contesti completamente diversi. Questo richiede un cambio di paradigma, in cui la salute e il benessere del cittadino siano messi al centro delle decisioni politiche.

Il caso della cannabis terapeutica evidenzia una più ampia problematica nella gestione delle terapie innovative. Solo attraverso un confronto costruttivo tra governo, comunità medica e associazioni di pazienti sarà possibile raggiungere un equilibrio che tuteli tutti gli interessi in gioco. Senza un intervento deciso, il rischio è quello di lasciare indietro chi ha più bisogno di sostegno, compromettendo non solo la loro salute, ma anche la fiducia in un sistema che dovrebbe proteggerli.

 

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